APPROFONDIMENTI
DIVORZIO: FAMIGLIA DISTRUTTA? NO, FAMIGLIA TRASFORMATA - 22 febbraio 2021
Il presupposto alla base della mediazione familiare è che l’evento legato alla separazione tra i coniugi non fa venire meno il concetto di famiglia, ma lo trasforma.
La trasformazione cui la famiglia va incontro riguarda aspetti materiali (non si vive più sotto lo stesso tetto), e naturalmente psicologici (derivanti dalla rottura del rapporto coniugale), ma tali trasformazioni non sono in grado di far smettere alla famiglia di esistere.
Il compito della mediazione è quello di supportare la riorganizzazione delle relazioni familiari che fanno seguito all’evento separativo.
Tale riorganizzazione riguarda fatalmente il mondo interiore di ciascuno dei componenti e le relazioni diadiche (tra gli ex coniugi) e triadiche (tra essi e i figli) all’interno del sistema.
Lo sviluppo dell’intero processo oscillerà pertanto tra il passato (la storia delle relazioni, degli aspetti positivi e di quelli negativi, dei dissapori e delle tensioni), il presente (lo stato di fisiologico disorientamento e dolore che comporta inevitabilmente la separazione in chi la vive, al di là del fatto che l’abbia formalmente promossa o subita) e il futuro (le risorse interne e relazionali su cui ciascuno può fare affidamento).
MEDIAZIONE: OBBLIGATORIA O FACOLTATIVA? - 15 febbraio 2021
La questione relativa al dubbio sulla mediazione obbligatoria o facoltativa si accompagna a quello legato alla riservatezza di quanto accade nel corso del processo. E infatti evidente che più un intervento si colloca con modalità coercitiva, meno si avrà una tutela degli interessi dei coniugi in lite, e minore sarà di conseguenza il loro diritto alla segretezza sul procedimento.
Una soluzione non è facile a priori.
Una possibile chiave di lettura potrebbe essere data dagli interessi tutelati: nel caso in cui sia posta a rischio la salute psicofisica dei minori (per esempio nel caso di maltrattamenti o abusi) è probabilmente ipotizzabile un intervento coercitivo, giustificato dalla tutela dei minori che la comunità sociale deve garantire.
Altra cosa è ipotizzare un intervento coercitivo e privo della necessaria segretezza nel caso di una separazione in cui non siano a rischio diritti dei minori. È infatti difficile ipotizzare che una coppia possa esprimere esigenze, difficoltà, dubbi, e paure nel momento in cui sa che ciò che viene affermato non rimarrebbe limitato alla stanza di incontro ma arrivi allo stesso giudice.
LA GESTIONE GIUDIZIARIA DEI CONFLITTI - 10 febbraio 2021
Questo intervento si ispira a quanto affermano Dino Mazzei e Vittorio Neri nel loro testo sulla Mediazione Familiare Edito da Raffaello Cortina a proposito della gestione giudiziaria dei conflitti.
Ciò che questi autori si domandano è in cosa si differenzi la gestione di una separazione tra coniugi rispetto a una qualsiasi controversia in ambito civile. La premessa è che la separazione tra coniugi pone problematiche molto più ampie di qualsiasi controversia in ambito civile Proprio a causa della maggiore vicinanza emotiva e affettiva tra le due parti. C’è infatti una enorme differenza tra la controversia che si instaura tra datore di lavoro e lavoratore, tra vicini di casa magari per una questione di confini, tra due amici che litigano per una controversia insorta tra loro, e tra ex coniugi che si confrontano su anni di rapporti consolidati e sul crollo di una relazione affettiva che le aveva condotti al matrimonio.
Appare quindi di tutta evidenza quanto sia irrealistica l’aspettativa di risolvere una controversia di questo tipo con un medesimo approccio unicamente di tipo giuridico, e in questo senso l’intervento di un’ottica mediatrice può essere di grande aiuto e supporto alla stessa azione del giudice, colmando una mancanza dell’ottica esclusivamente giuridica, data proprio dalla peculiarità delle relazioni dei protagonisti coinvolti nel processo separativo.
Va aggiunta una ulteriore riflessione: nell’ottica appena descritta la mediazione familiare potrebbe costituire uno strumento alternativo – almeno in alcuni casi – alla stessa CTU. La mediazione ha infatti il vantaggio di possedere un approccio più dialogante e improntato a un’ottica trasformativa rispetto alla Consulenza Tecnica, che - soprattutto negli approcci più tradizionalisti - spesso è intesa più come semplice valutazione della situazione al momento in cui viene svolta, con tutti i potenziali danni che un mero approccio valutativo può comportare: un simile approccio infatti fotografa la situazione al momento in cui la realtà viene osservata, con il rischio di renderne una lettura statica e quindi irrealistica, dati i costanti mutamenti a cui una relazione complessa come quella di due separandi va incontro con il passare del tempo.
LA CTP: IL “FRONTE INTERNO” - 4 febbraio 2021
Nell’immaginario di chi non se ne occupa (e purtroppo qualche volta anche in quello di chi se ne occupa), il compito del CTP in una causa di separazione è quello di supportare il proprio cliente e di tutelarne la ragioni nello scontro più o meno senza quartiere con l’altro cliente e con l’altro CTP. Il tutto allo scopo di ottenere più benefici possibile (passare più tempo con i figli, prevalere nella scelta della scuola, prevalere in generale in tutti gli argomenti e a tutti i costi ecc.), mentre in tutto questo il CTU dovrebbe rivestire poco più che il ruolo di un arbitro che cerchi di evitare colpi troppo bassi tra le parti.
Non c’è nulla di più sbagliato, e di più pericoloso.
Normalmente il CTP interviene in una situazione fortemente deteriorata da un conflitto che dura da tempo, nel quale le posizioni sono ormai cristallizzate in un conflitto senza fine. Guai se interpretasse il proprio compito come quello di chi prosegue con altri mezzi un conflitto non suo. Con questa fondamentale premessa il compito del CTP non può prescindere da un costante lavoro sul il proprio assistito per permettergli
a) di rendersi conto del ruolo che egli stesso ha avuto nella vicenda separativa,
b) di comprendere il fatto che le ragioni e i torti non si trovano mai dalla stessa parte,
c) (soprattutto) dell’esigenza di tutelare i figli, come principali vittime della situazione.
Infatti un elemento molto complicato da far comprendere in una CTU è che nessuna delle parti è mai nella condizione di definirsi “vittima” come lo sono i figli, e qualsiasi desiderio di generare e perpetuare il conflitto deve alla lunga cedere il passo al dovere genitoriale di tutelare le autentiche parti deboli della vicenda.
Ma perché questo faticoso percorso abbia qualche possibilità di riuscita occorre che il CTP incontri una unità di intenti prima di tutto con l’altro professionista assunto dalla controparte, oltre a un Consulente del giudice realmente capace di unire nella CTU oltre agli aspetti valutativi anche delle vere aspirazioni trasformative.
Ma questi atteggiamenti sono tutt’altro che scontati.
DIFFERENZE TRA MEDIAZIONE E COUNSELING - 29 gennaio 2021
Esaminando il rapporto tra la mediazione e la CTU, o tra la mediazione e la psicoterapia, si è notato come le differenze tra questi processi siano sfumate e non sempre identificabili in modo univoco.
Rispetto al counseling invece il confine è netto e immediatamente percepibile a partire dalla finalità dei processi.
Il processo di mediazione richiama il concetto di negoziazione, poiché la sua finalità è quella di permettere un negoziato, un dialogo tra due parti in conflitto. I separandi vengono aiutati in questo dalla figura del mediatore, che opera per smussare gli angoli più acuti del conflitto legato alla separazione. Ciò permetterà loro di sviluppare un processo che valorizzi le loro capacità genitoriali, evitando che i figli vengano coinvolti nel conflitto in corso.
Il processo di counseling richiama il concetto di empowerment. Qui il problema su cui interviene il consulente non è di natura psicopatologica ma di natura pratica e la finalità del suo intervento è quella di stimolare la ricerca di soluzioni a questi problemi.
La differente ampiezza dei problemi affrontati comporta anche una diversa durata dei processi. Nella mediazione si interviene su rapporti deteriorati in anni, in presenza di comprensibili difficoltà e resistenze da parte dei protagonisti. Il processo di counseling invece – essendo circoscritto a questioni specifiche e puntuali – ha una durata breve, limitata alla soluzione del problema alla base dell’intervento.
DIFFERENZE TRA MEDIAZIONE E PSICOTERAPIA - 23 gennaio 2021
L’argomento relativo agli elementi differenziali che esistono tra mediazione psicoterapia è molto dibattuto a causa anche delle caratteristiche di questi due processi, che presentano molti punti in comune. La stessa formazione dei mediatori – che spesso sono psicoterapeuti – può ingenerare qualche confusione.
Uno dei luoghi comuni sui quali si è insistito nel corso del tempo per definire un criterio differenziale tra mediazione e psicoterapia è l’orientamento temporale del processo. La psicoterapia sarebbe maggiormente orientata al passato, alla ricostruzione delle condizioni che hanno reso possibile una determinata situazione, mentre la mediazione avrebbe un maggiore orientamento al futuro, per la necessità di ridurre i conflitti tra i separandi. È probabile che mediamente il tempo dedicato al passato in una mediazione si minore rispetto alla psicoterapia, ma la casistica è talmente ampia e variegata da rendere impossibili delle generalizzazioni.
Un altro tentativo di differenziare questi due processi riguarda la loro durata: la mediazione – avendo un obiettivo molto più circoscritto – avrebbe una durata inferiore rispetto alla psicoterapia. In realtà anche qui la varietà nella casistica impedisce di formulare delle affermazioni univoche, e anche qui la differente durata del processo in molti casi non c’è.
Ancora più insidioso è il tentativo di differenziare mediazione e psicoterapia per la caratteristica di “coppia normale” che avrebbe la coppia in mediazione, che sta semplicemente vivendo una fase separativa in cui necessita di un supporto, mentre una coppia che va in psicoterapia starebbe affrontando una situazione psicopatologica. Il fatto è che non sembra trovare particolare conferma nella realtà l’idea in base alla quale la psicoterapia affronterebbe necessariamente aspetti psicopatologici: molte coppie che affrontano un percorso psicoterapeutico lo fanno proprio perché spinte da un livello di conflittualità che viene considerato troppo alto, insomma da una situazione non molto distante dalla mediazione, se non fosse per l’obiettivo del processo, che non è quello di gestire un processo separativo, ma semmai di evitarlo.
Ed è proprio l’obiettivo l’elemento su cui forse psicoterapia e mediazione si differenziano in modo certo: nel primo caso esso può variare in modo importante, nel secondo caso consiste nella gestione del conflitto, e nel tentativo di ridurlo in modo da permettere un processo separativo che non danneggi - oltre ai partecipanti – le loro capacità genitoriali, a tutela del benessere dei propri figli.
DIFFERENZA TRA MEDIAZIONE FAMILIARE E CTU - 16 gennaio 2021
Sia la mediazione familiare, sia la CTU intervengono in situazioni di separazione, normalmente in presenza di figli e quasi sempre in situazioni di elevata conflittualità. Esistono però delle differenze sostanziali tra questi due interventi, che vale la pena elencare e descrivere.
Una prima differenza riguarda la genesi del processo. La CTU viene disposta dal giudice, mentre la mediazione familiare nasce su base volontaria, nel senso che viene decisa dagli interessati, con o senza la sollecitazione del loro legale di fiducia.
Una seconda differenza riguarda il momento in cui questi percorsi si svolgono. La CTU si caratterizza per il suo essere una forma di intervento con la coppia genitoriale durante il procedimento di separazione giudiziale ed è in ogni caso subordinata al contesto giuridico processuale. La mediazione familiare può invece essere decisa in qualsiasi momento, prima o dopo la separazione, talvolta anche anni dopo il divorzio.
Terza differenza: Il CTU si trova in una posizione intermedia tra due sottosistemi. Da un lato il sistema giudiziario dal quale è provenuto l’incarico, dall’altro il sistema familiare in fase di separazione. Il mediatore invece ha contatto e rapporti unicamente con il sistema familiare.
Una ulteriore differenza riguarda il mandato che viene affidato ai conduttori di questi processi. Il compito affidato al CTU è normalmente l’analisi delle caratteristiche di personalità e la modalità con cui i genitori si pongono in relazione con i figli, oltre alla valutazione delle capacità genitoriali di entrambi. Nella mediazione questo tipo di valutazione rimane molto più sullo sfondo, e lascia più spazio all’intervento finalizzato a facilitare la comunicazione tra i genitori.
Quinta differenza, relativa ai compiti: quello del CTU è soprattutto di tipo valutativo, in relazione all’incarico ricevuto dal giudice, mentre il compito del mediatore è quello di promuovere e agevolare un cambiamento nelle relazioni tra gli ex coniugi, al fine di ridurre il tasso di conflittualità nell’interesse dei figli. Va in ogni caso osservato come nelle consulenze tecniche l’atteggiamento stia un po’ alla volta cambiando, soprattutto da parte dei CTU più competenti, che arricchiscono il proprio intervento anche di aspetti facilitativi e risolutivi del conflitto, al punto da potersi individuare in molti casi le caratteristiche di un vero e proprio intervento clinico.
MODELLI DI MEDIAZIONE FAMILIARE - 8 gennaio 2021
Come è ovvio i modelli di riferimento per la conduzione di un processo di mediazione familiare sono più di uno. L’elenco che segue non vuole ovviamente essere esaustivo, e va soprattutto considerato il fatto che questi modelli non vanno necessariamente applicati in toto, potendosi anche ipotizzare a seconda dei momenti applicazioni ora dell’uno, ora dell’altro.
Seguendo la classificazione che offrono Dino Mazzei e Vittorio Neri nel loro testo sulla mediazione familiare, una primissima distinzione di carattere generale va fatta tra i modelli che hanno un approccio più negoziale e quelli dall’approccio più terapeutico. I primi sono mutuati dalle mediazioni di ambito commerciale e insistono sulla neutralità del mediatore, che si astiene da qualsiasi considerazione e controlla semplicemente la formulazione degli accordi e il loro successivo rispetto. I modelli di approccio terapeutico invece prevedono un approccio del mediatore più interventista, attenta all’equità degli accordi (condizione perché essi resistano al tempo), oltre alla rispondenza di essi all’interesse dei minori.
Più in dettaglio i tipi di mediazione sono:
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la MEDIAZIONE NEGOZIALE, di provenienza specificamente statunitense, nella quale il mediatore svolge la funzione di guida e organizzazione della trattativa nonché di garanzia dei processi decisionali, senza riguardo alla posizione delle parti poiché discutere di tali posizioni porterebbe all’impasse della trattativa. La tecnica adottata invece si basa su una definizione congiunta del problema e sull’individuazione delle soluzioni possibili, secondo quattro principi: a. l’idea della normalità del conflitto in questi casi; b. la convinzione della competenza negoziale dei clienti, per quanto magari temporaneamente ridotta dal conflitto; c. il processo di self empowerment che la mediazione può garantire ai partecipanti che man mano che proseguono i lavori si rendono conto di aumentare le capacità di autocontrollo; d. il focus attentivo rivolto sempre al futuro piuttosto che a un passato generatore di conflitti.
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La MEDIAZIONE STRUTTURATA, nella quale invece il mediatore si pone come vero e proprio punto di riferimento per la coppia, e parte dalla necessità di una ristrutturazione del modello familiare, data dal processo separativo in corso. Secondo lo schema ideato dall’Avvocato O. J. Coogler (che oltre a essere Avvocato era anche Terapeuta Familiare), si ha una fase I in cui le parti esplicitano le difficoltà che stanno incontrando nel processo separativo, una fase II di raccolta di informazioni, una fase III in cui vengono formulate le possibili opzioni e una fase IV in cui viene scelta l’opzione condivisa.
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La MEDIAZIONE INTEGRATA, che prevede l’intervento di sue professionisti, Mediatore e Avvocato, che possono toccare i medesimi temi ma ognuno dal proprio punto di vista. È un tipo di mediazione molto utilizzato negli Stati Uniti.
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Un approccio più europeo prevede la MEDIAZIONE INTERDISCIPLINARE, nel quale il legale affronta le questioni di carattere più squisitamente pratico come le questioni di tipo economico, mentre il mediatore si occupa di ridurre le aree di conflitto allo scopo di predisporre i partecipanti al raggiungimento degli accordi.
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Infine la MEDIAZIONE TERAPEUTICA, che parte dal presupposto in base al quale, prima di intraprendere il processo di mediazione in senso stretto, occorre rendere stabili le relazioni tra le parti, ponendole nelle condizioni di potersi confrontare in modo meno conflittuale. Il presupposto tipicamente sistemico di questo approccio è che ogni famiglia ha sviluppato un modello di interazione tra i membri, che con la separazione viene travolto. Il processo di mediazione è indirizzato alla ricerca di una nuova stabilità, aiutando la coppia a modificare i pattern interattivi disfunzionali. Un ipotesi di lavoro è che – trattandosi di pattern che hanno a suo tempo contribuito alla separazione – sia proprio il rivolgimento generale dato da questo evento che può alla, lunga diventare un alleato del mediatore e dei componenti la coppia a trovare un nuovo modo e nuovi pattern più funzionali, nell’interesse soprattutto dei figli.
CENNI STORICI SULLA MEDIAZIONE FAMILIARE - 3 gennaio 2021
Il concetto di mediatore richiama il ruolo che un terzo assume nel corso di una controversia tra due parti al fine di facilitare il dialogo tra esse in vista di una riconciliazione. È un ruolo che storicamente esiste da sempre, svolto a seconda dei vari contesti sociali dal patriarca, dagli anziani o dalle strutture ecclesiastiche.
Sul piano più squisitamente giuridico la mediazione nasce negli Stati Uniti poco dopo il 1910, allo scopo di dirimere controversie sorte in ambito lavorativo. In seguito si ha un’estensione del campo di intervento anche ai conflitti familiari nei casi di separazione, con la nascita della mediazione familiare in senso stretto. Data la finalità di supporto ai bisogni dei figli coinvolti nel processo separativo, questa specifica tipologia di mediazione si caratterizza per il fatto che il suo obiettivo non è la ristrutturazione della situazione pre conflittuale, ma la gestione non conflittuale del momento di passaggio e trasformazione familiare. La nascita di un approccio più specificamente sistemico viene fatta risalire agli anni Settanta, in particolare a un Avvocato / terapeuta familiare di Atlanta, O. J. Coogler, che creò la Family Mediation Association. Singolari due elementi: il primo è che la spinta che lo mosse verso questa scelta venne dalla propria esperienza personale di un divorzio particolarmente conflittuale. Il secondo è che egli viene descritto come un devoto cristiano, fattore quest’ultimo significativo che fa apprezzare ancora di più la scelta di strutturare un percorso che regolasse senza impedirlo il processo separativo. Il procedimento da lui coniato, che si definiva “mediazione strutturata” procedeva per tappe prestabilite verso la formulazione di accordi, secondo un modello che tuttora viene perseguito. Sarebbe stata California a introdurre nel 1981 per prima nell’Unione il percorso obbligatorio di mediazione preliminare alle cause di separazione, per creare uno spazio in cui le esigenze dei figli venissero prese in considerazione e valorizzate.
In Europa la mediazione è approdata in momenti diversi: a Bristol nel Regno Unito nel 1978, in Francia negli anni Ottanta, in Italia soprattutto a Milano (1987) con l’attività del Centro GeA (Genitori Ancora), e a Roma l’anno dopo, grazie a una collaborazione tra la facoltà di Psicologia della Sapienza e la Pretura di Roma. Negli anni Novanta sono poi nate le associazioni che raccolgono professionisti del settore, tra le quali quella cui facciamo riferimento noi, l’Associazione Internazionale dei Mediatori Sistemici (AIMS) nel 1995.
LEGGE 54/2006 E AFFIDAMENTO CONDIVISO - 21 dicembre 2020
L’affidamento condiviso è ormai un dato scontato, e costituisce la regola nelle situazioni di separazione. Non è sempre stato così. Fino al 2006, quando è entrata in vigore la legge n. 54, le cose andavano diversamente, e l’affidamento esclusivo era tutt’altro che un’eccezione. Il precedente orientamento della magistratura, soprattutto nei casi di separazione conflittuale, era che il conflitto rendesse impossibile una gestione comune dei figli, con il risultato che il più delle volte era il padre che si trovava in posizione di svantaggio.
La ratio della legge n. 54 è esattamente quella opposta: proprio in presenza di un’alta conflittualità, proprio quando esistono i rischi dell’eliminazione di una delle figure genitoriali occorre tutelarne i diritti affermando il principio della genitorialità condivisa.
A ben vedere da questa situazione ci hanno guadagnato tutti. I genitori che hanno avuto modo di proseguire nel proprio rapporto affettivo con i figli e nel proprio ruolo educativo, eliminando il rischio dello stigma che derivava dal mancato affidamento di essi. Ma soprattutto i figli che hanno avuto modo di ottenere la prosecuzione del proprio rapporto con il papà e la mamma, sui conflitti dei quali intervengono processi di mediazione familiare o di coordinazione, nei casi più complessi.
DONNE, FAMIGLIA E LAVORO IN GIAPPONE - 10 dicembre 2020
La monografia dedicata al Giappone della rivista The Passenger, edita dalla Casa Editrice Iperborea, ha ospitato un interessante intervento sulla condizione della donna in Giappone nella doppia appartenenza al proprio sistema familiare e lavorativo. L’autrice è Sekiguchi Ryoko, una poetessa e traduttrice di origine locale, ormai residente a Parigi da anni.
Gli elementi di interesse di questo articolo sono vari. Il primo consiste nel fatto che viene narrata un’esperienza diretta, quella della famiglia dell’autrice, lungo un arco temporale che copre il ventennio degli anni Ottanta e Novanta. Il secondo riguarda l’analisi della descrizione dei cambiamenti intervenuti nella condizione femminile e il parallelo andamento della situazione economica e sociale del Giappone. Infine sono interessanti alcuni parallelismi con la realtà italiana, che offrono esiti per certi versi sorprendenti.
Emerge innanzi tutto come negli anni Settanta, quando la maggior parte delle donne svolgeva il ruolo esclusivo di madre e moglie, fosse l’ambiente circostante – il vicinato – l’unica possibilità di relazione sociale che consentiva loro di uscire dalle mura domestiche. Esisteva un proliferare di corsi di creazioni di carta o di bambole, ricamo e cucito o corsi di cucina. E questi corsi erano tenuti da altre donne, che in questo modo conquistavano una minima autonomia economica e una dignità lavorativa, per quanto mal vista e spesso ostacolata dai loro uomini.
La situazione è cambiata negli anni Novanta, quando le donne hanno cominciato a lavorare stabilmente fuori da casa, all’inseguimento di un’equiparazione agli uomini che in realtà sul piano lavorativo e salariale in Giappone non è mai arrivata. È però cambiato profondamente il ruolo della donna e la sua posizione nei rapporti di forza familiari, nonostante una forte resistenza del Paese del Sol Levante nei confronti dei cambiamenti culturali.
A tutt’oggi nella classifica mondiale delle donne con ruoli senior in azienda il Giappone occupa l’ultimo posto a livello mondiale, e questo sta comportando un vero e proprio “riflusso”, poiché molte donne – deluse da aspettative di equiparazione tradite - cercano di tornare a lavorare a casa, magari organizzando corsi per il vicinato come accadeva tanti anni fa.
Interessante, sempre a proposito di questa classifica, il posto occupato dall’Italia, che si colloca attorno a un tutto sommato onorevole decimo posto a livello mondiale per la percentuale di donne che rivestono ruoli apicali in azienda. La differenza tra Giappone e Italia sembra essere il rifugio nell’ambiente domestico, che per le donne giapponesi rimane un ambito fortemente attraente di autonomia – probabilmente per il sostanziale disinteresse degli uomini nei confronti delle cose di casa – mentre le donne italiane sembrano maggiormente orientate alla realizzazione lavorativa. Sarà interessante osservare i residui della crisi originata dal Covid quali effetti lasceranno dietro di loro anche in questo ambito.
FINALITA’ DELLA CTU NELLE SEPARAZIONI - 7 dicembre 2020
In un precedente intervento veniva sottolineato un possibile atteggiamento discutibile da parte del consulente di parte in una CTU, che consiste nella volontà di far “vincere” il proprio cliente. Atteggiamento discutibile perché dovrebbe essere chiaro che il vero interesse da tutelare è quello dei minori. Aderire pedissequamente alla posizione di una parte in conflitto da parte di entrambi i CTP significa che a loro volta iniziano un contenzioso, e il conflitto si perpetua.
A cosa serve invece la Consulenza Tecnica di Ufficio (CTU)? Essa “può essere uno strumento prezioso, un’occasione per mettere in moto un processo di riflessione e consapevolezza circa le dinamiche disfunzionali che vede coinvolti i genitori rispetto al loro assetto individuale, alle dinamiche di coppia e familiari” (M.R. Consegnati, C. Macrì, B. Zoli, La Tutela del Minore nella Separazione Conflittuale, Milano, Franco Angeli, 2018, pag. 16). Insomma, spiegato con altre parole, il processo della CTU pone i genitori nelle condizioni di rivisitare in modo critico le vicende personali e relazionali che li hanno condotti ad alimentare il conflitto, e in questo senso il ruolo del CTU è cruciale almeno quanto quello dei CTP: la funzione di questi professionisti può essere sintetizzata in tre punti, due rivolti al passato, e uno al futuro.
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Far comprendere a ciascuno dei coniugi il ruolo avuto nelle dinamiche relazionali che hanno condotto alla separazione, nella consapevolezza che non si è mai di fronte a una vittima e a un carnefice designati, ma a due soggetti che ognuno per la propria parte, hanno aiutato il sistema a evolvere verso il conflitto.
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Far comprendere a ciascuno dei coniugi le ragioni dell’altro. Il conflitto rende difficile innanzi tutto il riconoscimento delle ragioni altrui, e una loro riscoperta non può che giovare all’intero percorso.
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Insistere e valorizzare i punti di forza di ognuno dei genitori, permettendo un’operazione di recupero delle aspettative sul futuro che il conflitto tende a bloccare, rendendo eterna la percezione del presente e delle sue difficoltà.
In questo senso il compito dei CTP è di operare sulla base dei punti a) e b) sopra descritti; quello del CTP è di indirizzare la propria attività verso il punto c).
Si tratta di obiettivi che sono perseguibili soltanto con un’azione concorde e coordinata del CTU e di entrambi i CTP. È purtroppo evidente nell’esperienza empirica che basta che uno di questi attori manchi al proprio compito per mantenere la situazione nel conflitto, che è poi l’habitat che i genitori conoscono meglio, e nel quale tendono a trovarsi in qualche modo a proprio agio.
LA MEDIAZIONE FAMILIARE: DAL CONFLITTO AL RAGGIUNGIMENTO DI ACCORDI - 28 novembre 2020
L’obiettivo della mediazione familiare può essere riassunto in una frase suddivisa in tre parti:
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agevolare il dialogo,
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riducendo i conflitti,
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nell’interesse dei minori.
Il percorso attraverso il quale si cerca di arrivare a questi obiettivi – decisamente ambiziosi – consiste necessariamente nel permettere a ognuno dei separandi di esprimere la propria emotività (e la conflittualità che da essa deriva) relativa alla vicenda che lo ha legato all’altro.
Gli errori da evitare sono errori – per così dire - “di misura”.
Un errore è quello di cercare di bloccare questa emotività, una volta che emergono anche le sue componenti conflittuali. La tentazione è pensare che quando due separandi iniziano a discutere e a litigare su vicende del passato il compito del mediatore sia quello di spegnere al più presto il litigio e lo scontro, per riportare i partecipanti su argomenti più legati alla ricerca dell’accordo e della collaborazione. Questo è un errore perché l’emotività negata rimane comunque presente, e si esprimerà nuovamente presto o tardi.
Un altro errore è quello opposto, cioè quello di rimanere inerti assistendo agli scontri tra i separandi, non intervenendo in alcun modo per limitarli o fermarli una volta che siano iniziati, e lasciando che si protraggano oltre una durata che solo l’esperienza e la sensibilità del mediatore possono suggerire (dipendesse dei separandi il litigio proseguirebbe in eterno). È l’errore opposto al precedente perché in questo caso l’inerzia è dannosa quasi quanto l’eccessivo interventismo, e comporta una colossale perdita di tempo.
Un comportamento equilibrato permette l’espressione dell’emotività – compresa quella inevitabilmente ostile – dei partecipanti, aiutandoli a spostare man mano la propria attenzione dal passato, che è fonte di conflitto, al futuro e alle sue potenzialità generative. In questo senso l’abilità del mediatore di agevolare una crescita di attenzione per l’interesse dei figli coinvolti dal processo aiuterà i partecipanti a trovare su quel terreno un possibile elemento di condivisione, anziché un nuovo argomento di scontro. Con tempo e pazienza….
LA SEPARAZIONE NON E' LA FINE DELLA FAMIGLIA - 20 novembre 2020
Una convinzione piuttosto diffusa è che con la separazione la famiglia non esiste più.
L’idea che c’è alla base è che la famiglia esiste solo quando ci sono due genitori con i figli che vivono sotto lo stesso tetto; venuto meno il rapporto matrimoniale o comunque la relazione affettiva tra i due genitori, tutto finisce. Per usare la terminologia in cui tutti ci siamo imbattuti, la famiglia si “disgrega”, si “distrugge”, e così via.
La nostra idea come mediatori sistemici è che la separazione comporti sicuramente dei cambiamenti profondi nel sistema – famiglia, ma che tale sistema esiste ancora.
La famiglia divisa deve considerarsi comunque una famiglia. Non sarà caratterizzata dalla convivenza nella medesima casa, i momenti comuni diminuiranno drasticamente (e ciò spesso sarà un bene per tutti), ci saranno nuove esigenze organizzative con cui fare i conti, ma la famiglia continua a esistere. La mediazione tra le proprie funzioni ha anche quella di procedere a una riorganizzazione delle relazioni familiari.
La modalità con cui ciò avviene è duplice. Vanno cioè osservati e valorizzati gli aspetti intrapsichici dei protagonisti (con il concetto di “intrapsichico” ci riferiamo a ciò che avviene nei pensieri di una persona), e vanno ugualmente osservati gli aspetti relazionali: il cambiamento cui si va incontro comporta una ridefinizione dei confini nelle relazioni familiari, dei rapporti tra gli appartenenti alla coppia e tra ognuno di essi e i figli, nei confronti dei quali non si esaurisce l’affetto o il legame.
L’esperienza di mediatori ci insegna che il contrasto del luogo comune che vede unicamente elementi di morte, fine dei rapporti e della famiglia nelle situazioni di separazione è spesso il primo imperativo per chi svolge la nostra attività. Quell’idea di morte è il primo malinteso da sciogliere con i nostri clienti. La cosa difficile da far loro accettare è che la vita familiare prosegue, e soprattutto continueranno i loro doveri e le responsabilità che conseguono dal ruolo di genitore. Questo non è un passaggio banale, e spesso non è nemmeno breve.
MALINTESI SULLA MEDIAZIONE FAMILIARE - 14 novembre 2020
Qualsiasi percorso si intenta intraprendere è legato a delle aspettative, e la mediazione familiare non fa eccezione. Purtroppo – e anche in questo la mediazione non fa eccezione – talvolta quelle aspettative sono irrealistiche.
I principali argomenti su cui può presentarsi un qualche elemento irrealistico nella mediazione familiare hanno a che fare con scopi e esiti.
A proposito degli scopi, da parte del coniuge che sta subendo il processo separativo talvolta si innesta l’aspettativa che la mediazione abbia lo scopo di interrompere questo processo, di farlo rientrare, e che la vita di coppia possa riprendere più o meno secondo le sue aspettative. In realtà il percorso della mediazione ha come scopo quello di facilitare il dialogo, non di modificarne i contenuti. E tutto ciò sempre nell’interesse dei minori coinvolti in un processo che non comprendono e che il più delle volte subiscono. Ciò non significa che una scelta separativa non possa rientrare, ma non è quello l’obiettivo della mediazione.
Per quanto invece riguarda gli esiti, può talvolta ingenerarsi l’aspettativa che il processo separativo, grazie alla mediazione, sarà un processo agevole e privo di strascichi. Non è così: il percorso rimane complesso, potenzialmente doloroso e i livelli di incomprensione della vicenda sottostante saranno più bassi ma mai del tutto azzerati. Per usare le felici parole usate da Robert Emery oltre 25 anni fa, “ci sono modi migliori e peggiori per divorziare, e ci sono modi migliori o peggiori per risolvere i contrasti relativi all’affidamento dei figli, ma non ci sono soluzioni che garantiscano la felicità: nessun approccio, insomma, neppure quello proprio della mediazione, è una panacea”.
CTU IN CASO DI SEPARAZIONI: SITUAZIONI PERICOLOSE - 4 novembre 2020
La CTU nelle separazioni conflittuali rappresenta un passaggio importante nel processo legato alle separazioni coniugali.
A nostro parere questo passaggio viene normalmente inteso in due modi diversi, non necessariamente alternativi tra loro.
Può essere inteso come ultima spiaggia: esaurite le possibilità di una interlocuzione non conflittuale tra i due ex coniugi, esaurite le capacità di proseguire il dialogo tra i legali (per incapacità degli stessi a slegarsi dal ruolo “io-devo-vincere”, o per il sabotaggio da parte dei rispettivi clienti), si ritiene di delegare al consulente d’ufficio e ai consulenti di parte la soluzione a problemi percepiti come insormontabili.
Può anche essere inteso – purtroppo - come un altro modo per perpetuare lo scontro. Il conflitto tra i coniugi basato su atteggiamenti aggressivi reciproci diviene in un secondo momento conflitto tra i legali sulla base dei codici e delle leggi, e ci si aspetta che quel medesimo scontro prosegua sulla base delle categorie psicologiche da parte dei consulenti.
La nostra visione – e sappiamo di essere in ottima compagnia – è che lo scopo della CTU debba essere “generativo”, nel senso di produrre quantomeno i semi di un cambiamento nelle relazioni tra i separandi.
Tutto ciò può avvenire costringendo i partecipanti a un dialogo in presenza facilitato da professionisti, aiutandoli a spostare il focus della propria attenzione dal conflitto all’interesse dei figli, permettendo loro di rendersi conto dei torti commessi o subiti, e valutando così le capacità genitoriali nel qui e ora del percorso.
Ho parlato di “qui e ora del percorso” perché una tentazione dalla quale si deve fuggire è concentrare l’attenzione esclusivamente sulle vicende del passato, sulla ricostruzione degli errori commessi dalle parti.
Si tratta della strada più facile, ma anche della più inutile: se ci si trova in CTU, di errori ne sono stati commessi tanti, e li hanno commessi tutti.
Inoltre costringere i protagonisti a rivangare episodi del passato non è di alcun aiuto, poiché rischia di bloccarli su vecchi sentimenti di rabbia e rivalsa, con il risultato di alimentare semplicemente il conflitto.
Le “situazioni pericolose” in cui ci si può imbattere con simili premesse non sono mai costituite dal conflitto tra gli ex coniugi. Quel conflitto è la premessa, tutti se lo aspettano.
Il problema può essere costituito dall’eventuale tendenza a costruire l’intero percorso unicamente sulla ricostruzione di “chi ha ragione” tra i due litiganti.
Oppure nella volontà – specialmente da parte dei CTP – di voler far vincere la propria parte.
La CTU in realtà ha un unico soggetto che andrebbe tutelato, che è il minore. E tranne in casi eccezionali (ma veramente rarissimi) il minore deve crescere nella compresenza sia di uno, sia dell’altro genitore.
SITUAZIONI CHE RICHIEDONO PARTICOLARE ATTENZIONE DA PARTE DEL COORDINATORE GENITORIALE - 25 ottobre 2020
La coordinazione genitoriale interviene in situazioni particolarmente conflittuali e ha una finalità di supporto della capacità genitoriale, che rischia di soccombere proprio a causa del conflitto tra gli ex coniugi. Questo processo si attiva quindi in una situazione di grande crisi nei rapporti, ed è scontato che la situazione in cui si svolge sia di partenza estremamente complessa.
Eppure possono crearsi contesti che aggravano questo stato di difficoltà e complicano ulteriormente il lavoro del coordinatore genitoriale, che è quindi sottoposto a un impegno supplementare. Tali situazioni sono le più varie:
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la situazione di rifiuto di un genitore da parte del figlio. Si tratta di un evento che si verifica soprattutto con figli adolescenti: un simile comportamento può essere talvolta erroneamente considerato frutto di una istigazione da parte dell’altro genitore, ma molto spesso deriva da un bisogno del ragazzo di sottrarsi al ruolo di catalizzatore dei dissidi, e risponde a un meccanismo mentale di questo tipo: meno vedo uno dei genitori meno mi sento colpevole del dissidio, meno mi sento raccontare quanto l’altro si comporta male. Per questo motivo il figlio decide di eliminare uno dei poli. C’è naturalmente la possibilità che sia uno dei genitori a alimentare il rifiuto dell’altro da parte del ragazzo; il compito del coordinatore è in quel caso di accompagnare i protagonisti a prendere atto che una tale situazione è dannosa.
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La presenza di figli con bisogni speciali “consistenti” (es. disabilità). Molto spesso queste situazioni portano alla separazione ed è richiesto impegno emotivo, di tempo e di denaro, che porta spesso a situazioni conflittuali esplicite o di rifiuto del bambino. In questi casi l’intera procedura di coordinazione genitoriale aumenta in intensità emotiva anche per lo stesso coordinatore.
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Situazioni con famiglie con relazioni particolarmente disfunzionali: si pensi a genitori con disturbi di personalità, dipendenze, condotte antisociali.
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Situazioni di violenza intrafamiliare conclamata.
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Situazioni in cui siano coinvolti genitori di etnie diverse, in cui – oltre al conflitto per motivi legati alla separazione – subentrano istanze a livello soprattutto culturale e identitario, per cui una parte cerca di far prevalere la propria impostazione culturale o religiosa o etnica.
MASCHERINA IN SEDUTA: DANNO O OPPORTUNITA'? - 16 ottobre 2020
La situazione pandemica che stiamo vivendo comporta l’assunzione di cautele nel corso delle sedute in presenza, a cui nessuno era abituato.
Oltre alle norme relative alla disinfezione delle mani e dei posti, al tenere le finestre aperte e al distanziamento tra i partecipanti alla seduta, sta diventando normale condurre questi incontri utilizzando la mascherina.
Per molti, colleghi o clienti, si tratta di una condizione del tutto negativa, che aumenta la difficoltà di una seduta. A parte i problemi di carattere squisitamente pratico (respirazione, appannamento degli occhiali, fastidio, caldo), interverrebbe un fattore che complica in modo rilevante la comunicazione, poiché viene a mancare l'aiuto delle espressioni facciali per esprimere i sentimenti, e diminuirebbe di conseguenza la possibilità della comunicazione non verbale.
Ovviamente sono innegabili i fastidi di cui si è scritto sopra (respirazione, caldo ecc.) e che la mascherina porta con sè, ma l’idea che ci siamo fatti noi è che su un piano tecnico e terapeutico questo dispositivo protettivo non comporti conseguenze negative, anzi.
La sfida che esso pone sul piano comunicativo può essere agevolmente indirizzata in favore del rapporto terapeutico, sotto due diversi punti di vista.
Il primo è che, venendo meno la possibilità di utilizzare l’espressività facciale, viene aumentata l’importanza della parola. Non è più possibile delegare la descrizione di uno stato d’animo o di un pensiero all’espressione del viso ma occorre verbalizzare, utilizzare delle parole. E ciò restituisce importanza centrale al codice comunicativo per eccellenza, il linguaggio verbale. Una simile sfida, soprattutto per certe persone, può essere complicata, ma è sempre redditizia.
In secondo luogo non siamo del tutto sicuri che l’espressione facciale venga completamente eliminata dalla mascherina. I movimenti delle mani o le espressioni degli occhi rimangono possibili e possono essere nuove modalità di comunicazione che possono acquisire un ruolo che con il viso libero da protezioni probabilmente non avrebbero conquistato. E in ogni caso qualsiasi cambiamento – dentro e fuori della stanza di terapia – porta sempre un’occasione con sé.
TSUNAMI E PSICOTERAPIA - 10 ottobre 2020
La vicenda è nota: a causa del terremoto avvenuto l’11 marzo del 2011, le coste del Giappone sono state successivamente sconvolte da uno tsunami di proporzioni gigantesche, che ha seminato morte e distruzione nella popolazione che abitava in prossimità del mare.
La casa editrice Iperborea pubblica una collana – che si intitola “The Passenger” – che è formata da monografie dedicate a vari Paesi. In quella dedicata al Giappone il giornalista inglese Richard Lloyd Parry ha scritto un proprio contributo intitolato “Fantasmi dello Tsunami”, che si è dedicato proprio a una delle conseguenze del rovinoso Tsunami del 2011, nei racconti del reverendo Kaneda, il sommo sacerdote di un tempio zen.
Questo sacerdote ha raccontato di aver dovuto operare centinaia di riti e interventi di pacificazione in aiuto di persone scampate alla catastrofe certe di aver incontrato i fantasmi dei morti dello tsunami. I racconti erano i più vari, ma erano tutti popolati da uomini, donne, anziani e bambini incontrati nei pressi delle zone colpite dallo tsunami vari giorni dopo l’evento, con vestiti bagnati e sguardo spento, che passavano accanto ai sopravvissuti ora guardandoli con riprovazione, ora con tristezza: erano gli spiriti dei morti che sembravano arrabbiati con chi era sopravvissuto al dramma, ma che soprattutto sembravano chiedere pace e riposo, la possibilità cioè di essere aiutati ad approdare al nuovo mondo dei defunti a cui non sentivano ancora di appartenere.
Grazie all’intervento e ai rituali di questo sacerdote e di altri sacerdoti come lui, i vivi sono riusciti a non essere più tormentati da questi incontri con i fantasmi, oppure - vedendo la cosa da un altro punto di vista - i morti hanno trovato la propria pace e hanno accettato la propria nuova condizione, “perdonando” i sopravvissuti.
Questo aneddoto, con tutta la propria drammaticità ma anche il suo fascino, ci riporta a una domanda che in psicoterapia ha una fondamentale importanza: che cos’è la realtà?
Secondo una impostazione razionale, la realtà è là fuori, e aspetta soltanto che la conosciamo. È immutabile, possiamo apprenderla ma se siamo “malati” la distorciamo e la leggiamo in modo sbagliato. In quel caso niente paura, esistono i professionisti della salute mentale e – se non sono sufficienti – farmaci a volontà.
Secondo una impostazione che possiamo chiamare “costruttivista”, la realtà non è per nulla immutabile, ma viene man mano costruita dagli occhi dell’osservatore che la vive. Per me una cintura serve a evitare che i pantaloni mi caschino, per un bambino che è stato oggetto di violenza in famiglia è un oggetto di tortura, e nessuno dei due in realtà sbaglia.
Applichiamo questo ragionamento allo tsunami e ai morti privi di pace con cui i sopravvissuti dovevano fare i conti.
Quel fenomeno poteva essere letto come una sorta di allucinazione collettiva, da risolversi con la collettiva assunzione di farmaci antipsicotici, di calmanti, di ansiolitici o chissà che altro.
Oppure poteva essere letto nel rispetto della sua letteralità, aiutando i morti a ritrovare la propria pace e grazie a questo a calmare le paure dei vivi.
Quel sacerdote zen ha fatto una scelta di rispetto nei confronti dei propri interlocutori, e di umiltà nei confronti della realtà, poiché ha rinunciato alla propria personale costruzione, accettando quella delle persone che aveva davanti, nel rispetto della loro diversità, specificità e sensibilità. Quel sacerdote zen si è comportato da perfetto terapeuta costruttivista, e con ciò ha profondamente aiutato i vivi, e forse anche i morti.
Un famoso psicoterapeuta costruttivista e sistemico, un giorno si trovò di fronte un paziente psicotico. Questo paziente gli spiegò che prima di iniziare il percordo terapeutico avrebbe dovuto chiedere il permesso ai suoi demoni. Lo psicoterapeuta non si perse d’animo, e fece al proprio paziente un discorso più o meno di questo tipo: “senta, io non so se i suoi demoni ci siano veramente o no, però per favore spieghi loro che sono pregati di lasciarci lavorare in pace, e io prometto che non li disturberò”. La terapia funzionò, e la cosa andò benissimo per il terapeuta e per il paziente. Probabilmente anche per i demoni.
DIFFERENZE TRA MEDIAZIONE FAMILIARE E COORDINAZIONE GENITORIALE - 7 ottobre 2020
La coordinazione genitoriale, che è un processo piuttosto nuovo (è nato in Colorado nei primi anni Novanta) si differenzia dalla mediazione sotto alcuni, rilevanti aspetti.
Le caratteristiche tipiche della mediazione familiare sono volontarietà e la riservatezza.
Sotto il primo profilo va osservato che per quanto sia il giudice che la suggerisce, sono le parti che normalmente scelgono di intraprendere il percorso, e comunque il mediatore a cui rivolgersi.
Quanto alla riservatezza, se è vero che il mediatore lascia libertà ai clienti di portare gli accordi dove vogliono (per esempio ai propri legali), abitualmente quello che avviene nella stanza di mediazione rimane là e non ne esce.
La coordinazione genitoriale si caratterizza al contrario per la obbligatorietà e la mancanza di riservatezza.
Per quanto concerne il primo profilo, nella coordinazione genitoriale l’aspetto cogente è molto più rilevante in quanto siamo dinanzi a un percorso imposto dal giudice. Per quanto poi concerne la riservatezza, nella coordinazione genitoriale non ce n’è: da un lato perché il giudice chiede aggiornamenti costanti sull’andamento del processo, e dall’altro per la sinergia con gli altri professionisti che seguono la coppia.
Anche la durata dei due percorsi è diversa, poiché la mediazione familiare normalmente si sviluppa in una decina di incontri a scadenza poco più che mensile, mentre il percorso di affiancamento alla coppia previsto dalla coordinazione genitoriale può arrivare ai due/tre anni.
PRINCIPALI CARATTERISTICHE DELLA COORDINAZIONE GENITORIALE
- 3 ottobre 2020: Convegno AIMS, relazione della dott.ssa Rosita Marinoni.
La Coordinazione Genitoriale viene definita come un processo di risoluzione delle controversie centrato sul bambino attraverso il quale un professionista della salute mentale o di ambito giuridico con formazione nella mediazione familiare, aiuta i genitori altamente conflittuali ad attuare il loro piano genitoriale, facilitando la risoluzione delle controversie in maniera tempestiva, educandoli sui bisogni dei loro figli e, previo consenso delle parti e/o del giudice, prendendo decisioni sui temi che emergono.
Il coordinatore genitoriale può intervenire per assistere i genitori ad alto livello di conflittualità relazionale che abbiano dimostrato incapacità a lungo termine a prendere decisioni relative ai loro figli, a rispettare gli accordi e le decisioni dl tribunale, a ridurre i conflitti sui figli, proteggendoli dall’impatto del conflitto.
La funzione del coordinatore genitoriale è duplice: da un lato facilita l’applicazione delle disposizioni dell’Autorità Giudiziaria relative ai minori, dall’altro partecipa attivamente con la famiglia alla ricerca di strategie per il superamento della situazione critica. C'è quindi una compresenza di aspetti coercitivi e motivazionali che costituiscono in qualche modo l'essenza dell'attività del Coordinatore Genitoriale.
Il coordinatore genitoriale è un professionista iscritto a uno degli Albi relativi alle professionalità maggiormente coinvolte nel processo separativo (Assistenti Sociali, Psicologi, Psicoterapeuti, Neuro Psichiatri Infantili e Psichiatri), oppure è un mediatore familiare con laurea in materie umanistiche o giurisprudenza; o ancora ha una laurea magistrale in Pedagogia, Scienze dell’Educazione, Scienze della Formazione. È prevista inoltre una formazione specifica di minimo 50 ore.
La frequenza degli incontri è legata allo sviluppo del percorso, normalmente sono ravvicinati all’inizio e poi maggiormente dilazionati. Possono essere fatti incontri individuali in caso di particolari situazioni di difficoltà di compresenza dei genitori, ma tendenzialmente va preferita la seduta in presenza di entrambi poichè l'intervento è mirato proprio a risolvere le problematiche relazionali tra loro.
Va inoltre sottolineato il ruolo degli Avvocati delle Parti, e il loro diritto a esprimere le proprie riflessioni, senza però intervenire in modo diretto nel percorso.
Le competenze richieste al coordinatore genitoriale sono legate alle principali problematiche che possono insorgere durante il percorso: aiutano perciò nozioni di mediazione e di psicologia, di tipo pedagogico (spesso i genitori si scontrano su aspetti educativi), capacità di lavoro in rete (per le interazioni con gli altri professionisti), competenze di diritto di famiglia (spesso le persone che hanno di fronte si sono formate una colossale esperienza in materia grazie agli scontri continui). Anche qualche nozione sulla gestione dell’economia familiare può essere di aiuto, visto il ruolo nel conflitto anche delle problematiche economiche.
2 OTTOBRE FESTA DEI NONNI - 2 ottobre 2020
Il Parlamento Italiano nel 2005 ha indicato nel 2 ottobre, oggi, la giornata dei nonni. L’importanza dei nonni è radicata nella biografia e nei ricordi di tanti di noi.
Ma per chi si occupa di mediazione a livello professionale questa figura ha un significato del tutto particolare.
Prima di tutto i nonni costituiscono quella parte di famiglia che in molti casi interviene a supporto dei separandi sul piano affettivo e in certi casi anche economico.
E poi i nonni sono quelle figure fondamentali sul piano affettivo per i figli dei separandi, riuscendo a garantire loro una stabilità emotiva che i genitori, in certe fasi particolarmente travagliate del percorso separativo, talvolta non riescono a dare.
Inoltre i nonni costituiscono un riferimento fondamentale per la crescita dei figli di chi affronta una separazione, al punto che il loro ruolo è riconosciuto anche a livello giuridico, così come viene tutelata la possibilità per i nipoti di passare del tempo insieme a loro.
Una separazione non riguarda i soli ex coniugi. La tutela dei figli che si sviluppa a molteplici livelli coinvolge anche i nonni, il cui ruolo è col passare del tempo sempre più valorizzato.
LA DIFESA DELLA CAPACITA’ GENITORIALE - 26 settembre 2020
Il processo di separazione è lungo e il più delle volte accidentato. La principale difficoltà è costituita dal conflitto che gli ex coniugi vivono e che li ha condotti alla scelta – spesso non condivisa – di concludere l’esperienza matrimoniale.
Si è più volte osservato come in queste situazioni non ci sia un’unica vicenda separativa a cui guardare, ma tante esperienze quanti sono i protagonisti delle stesse: esiste una separazione secondo il punto di vista del marito, una separazione secondo il punto di vista della moglie. Le diverse sensibilità e personalità, così come i diversi ruoli nella vicenda fanno sì che le differenze nel vivere queste vicende siano molto spesso quasi incolmabili.
Il ruolo del mediatore non è – né potrebbe essere pena il fallimento dell’intero processo – quello di negare tali diversità, come le emozioni a esse connesse.
Il ruolo del mediatore è al contrario quello di facilitare la comunicazione tra i protagonisti della vicenda, permettendo loro di esprimere le emozioni che stanno vivendo e ricostruendo insieme a loro la storia che li ha prima uniti e poi divisi. Questo processo, talvolta conflittuale, spesso doloroso e sempre lungo, permette ai due protagonisti di conciliare la posizione di ex coniugi in conflitto con quella di genitori che debbono collaborare.
Il recupero della capacità genitoriale avviene proprio nel momento in cui si riesce a andare oltre il conflitto tra ex coniugi, o perlomeno quando questo conflitto scende a livelli tali da non assorbire più tutte le loro energie.
SULLA RIDUZIONE DI PENA A UN VIOLENTATORE - 21 settembre 2020
La corte di Appello di Milano ha recentemente ridotto la pena a un uomo accusato di aver picchiato e violentato la compagna, riconoscendo una attenuante nello stato di esasperazione causato dalla “condotta disinvolta” della donna. Il principio di questo ragionamento è che esiste un fatto specifico, la violenza carnale e le botte, ma il giudizio che viene dato del fatto risente di altri elementi quali il comportamento abituale della vittima.
Se però io giudico una persona sulla base di come si comporta abitualmente, attuo il medesimo meccanismo mentale di chi giudica un gruppo sociale sulla base dei comportamenti attribuiti a una parte più o meno ampia di esso. E così gli immigrati sono fannulloni, gli zingari farabutti, gli inglesi non si lavano, i francesi sono spocchiosi ecc. Divento insomma vittima di quello che si chiama pre – giudizio. E il pre – giudizio è il medesimo meccanismo mentale da cui deriva il razzismo.
Per quanto riguarda la sentenza sul violentatore, i suoi effetti saranno deleteri per tutti. Deleteri per le vittime, la cui tutela rischia di affievolirsi per motivi indipendenti dal fatto in sé. Deleteri per lo svolgimento dei processi: chi difende futuri stupratori si sentirà autorizzato a indagare la vita privata della vittima riportandoci indietro di decenni, quando in un processo per stupro era la vittima a essere la vera parte giudicata, e talvolta violentata una seconda volta con domande tendenti a poter eventualmente affermare “se l’è cercata”. Deleteri per la società, che si trova a vivere un colossale passo indietro nella tutela delle parti deboli, dovunque si trovino. E di questi tempi non ce n’era bisogno.
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Nel nostro lavoro di terapeuti o di mediatori c’è una principio che ci guida, che può essere riassunto nelle geniali parole di uno psicoanalista inglese del secolo scorso, Wilfred Bion, il quale invitava a incontrare i clienti nelle sedute “senza memoria e senza desiderio”.
Senza memoria per non farci fuorviare dai nostri pregiudizi, proprio perché sono nostri, e chi abbiamo davanti non c’entra nulla.
E senza desiderio per non imporre al cliente aspettative sul futuro che coincidano con il nostro personale modo di vedere e i nostri personali valori.
Ovvio, è una prescrizione impossibile da attuare alla lettera e completamente. Si tratta più di una aspirazione, mai del tutto raggiungibile, ma alla quale tendere instancabilmente.
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La vicenda dei giudici di Milano ci insegna che i pregiudizi incalzano implacabilmente un po’ tutti.
PREMESSE DELL'ATTIVITA' DI MEDIAZIONE - 15 settembre 2020
L’attività di mediazione normalmente inizia nel corso di una procedura di separazione già iniziata, o addirittura successivamente, quando magari è già stata pronunciata la sentenza di divorzio ma uno o entrambi gli ex coniugi sentono di avere ancora situazioni aperte di cui discutere.
Il mediatore deve tenere presente un elemento fondamentale nel proprio approccio ai clienti: se una coppia si trova in mediazione è probabile che non riesca a dividere il proprio rapporto genitoriale dal conflitto coniugale, che di conseguenza tende a invadere anche il rapporto genitoriale che nelle aspettative di tutti (ma soprattutto per le esigenze dei figli) dovrebbe rimanere integro. Il compito del mediatore è quello di agevolare questo isolamento.
Lo scopo del suo intervento è che venga compreso come il rapporto tra l’ex marito e l’ex moglie si è interrotto per quanto attiene alla linea della coniugalità, ma rimane e deve rimanere ben saldo per quanto attiene alla linea della genitorialità, come si vede dallo schema sotto riportato, tratto da una elaborazione di Roberta Marchiori (docente del Centro Padovano di Terapia della Famiglia nonché mediatrice familiare) nel suoi Studi sul Genogramma.
L’atteggiamento del mediatore può variare in base alla sensibilità e alle caratteristiche del singolo operatore. Potrà essere tendenzialmente di ascolto, oppure direttivo, o come accade più spesso alternare atteggiamenti e approcci diversificati nelle varie fasi, cercando di dirigere (mai negandolo) il conflitto e lasciando spazio agli interventi di entrambe le persone coinvolte nel percorso.
Su un aspetto però non sono possibili differenze: l’atteggiamento del mediatore deve essere improntato alla massima imparzialità, e deve accuratamente evitare qualsiasi atteggiamento giudicante. Un atteggiamento autenticamente imparziale in primo luogo gli permette di evitare di aggiungere il proprio nome al lungo elenco di parenti e amici che in qualche modo hanno ritenuto di dover dire la loro a favore o contro i protagonisti della separazione. In secondo luogo costituisce il primo passo per l’acquisizione di un ruolo riconosciuto e accettato di facilitatore dei rapporti, che è poi l’essenza stessa della mediazione. D’altra parte, come acutamente afferma Emery nel suo libro “Il Divorzio. Rinegoziare le Relazioni Familiari”, non esiste mai un solo divorzio, ma esiste il divorzio vissuto da una parte, e il divorzio vissuto dall’altra. Se il mediatore prendesse anche minimamente posizione rischierebbe di perdere l’efficacia e la comprensione di una delle due vicende, e questo lo porrebbe in uno stato di non conoscenza e non comprensione tale da impedirgli di svolgere efficacemente il proprio ruolo.
COSA CI PORTIAMO IN SEDUTA - 11 settembre 2020
La “valigia” per affrontare una psicoterapia o una mediazione familiare è un concetto che ricorre spesso. È riferito a ciò di cui deve servirsi il conduttore (psicoterapeuta e/o mediatore) nel compiere tali percorsi, in grado di contenere quelle nozioni, regole di comportamento o competenze che possono risultare utili. La nostra idea è che tutto ciò sia vero, qualcosa lo portiamo con noi ed è sicuramente necessario. Ma il concetto di “valigia” ci sembra eccessivo. Diciamo che è più che sufficiente uno zainetto, ben riempito di poche cose molto utili.
La prima è la curiosità, quel concetto che Gianfranco Cecchin preferì a quello di neutralità di origine psicoanalitica. Grazie alla curiosità si ha la spinta a conoscere, e qualsiasi lavoro di ricerca si fonda necessariamente su essa.
La seconda è l’astensione dal pregiudizio e dal giudizio (per quanto umanamente possibile). La ragione è semplice: ci accingiamo ad ascoltare il racconto di vite e di vicende che non sono nostre. Stiamo per conoscere rapporti e stati d’animo che si sono costruiti e sviluppati in anni. Se inquinassimo l’ascolto con i nostri pregiudizi, e se inquinassimo le nostre parole con i nostri giudizi, ci comporteremmo con la doppia tracotanza di voler aver capito tutto da pochi indizi, e per giunta di volerlo spiegare con le nostre categorie di pensiero.
La terza è la capacità di usare il paradosso. Uno degli scrittori americani del XX Secolo più discussi ma anche più interessanti, Jack Abbott, ha felicemente definito il paradosso come qualcosa che “solletica il calore umano, non lo grava con la disperazione dell’assurdo, dell’esistenza senza significato”, tracciando così una linea di demarcazione con l’assurdo (che del paradosso è la caricatura drammatizzata) e valorizzandone il ruolo di stimolo, uno stimolo dolce che non ferisce, ma per l’appunto “solletica”.
La quarta cosa è l’irriverenza. Non nel senso della mancanza di rispetto (Luciana Nissim Momigliano chiedeva espressamente al terapeuta la capacità di un “ascolto rispettoso”), ma nel senso del guardare – e spingere a guardare – oltre, senza infingimenti o remore, con sfrontata delicatezza.
L’ultima naturalmente è la tecnica, ma quella è affare nostro.